Lotta tra Castellaneta e Laterza per il possesso del Candile

E ora, o miei concittadini, mi accingo a malincuore a narrarvi un episodio della vita cittadina,
che fa disonore alle due città sorelle, Laterza e Castellaneta, le quali furono in aspra lotta fra di loroper il possesso del Candile (o Cannile).
Furono le beghe ed i livori campanilistici, che, soffiando nell'antico fuoco sempre accesso della delimitazione dei confini fra esse, divamparono in lotte vergognose e violenti con danno e scorno di amendue.
Cannile - Antica Stazione di Posta Romana sulla Via Appia
In altra parte della Storia di Laterza ho già riferito le accanite lotte fra Laterza e Castellaneta
avvenute nel secolo XIV, quando cioè questa città, (Castellaneta) spalleggiata anche da Matera,
pretendeva che quella non avesse suo proprio tenimento; anzi era edificata in quel di Matera,
onde la strana, pretenzione che Castellaneta confinasse con Matera e Laterza nuìlum tenimentum ìiabeat. Innanzi a questa paradossale pretenzione, i nostri si ribellarono e diedero loro filo da torcere con atti illegali e violenti e diplomi favorevoli e qualcuno sfavorevole, che faceva vieppiù divampare la fiamma degli odi e delle violenze.
Lo stato di enorme tensione di animo da ambo le parti non si quietò neanche quando nel 1518 a Laterza fu finalmente fatta giustizia con favorevole giudizio e stabile presa di possesso delle terre in contesa.
Questo odio secolare è la vera ragione efficiente di questa lotta per il possesso del Cannile, al quale per giunta i Castellanetani, avendo perduto il possesso dei terreni in contestazione, affacciarono pretesa di essere di loro pertinenza e proprietà.
Vedremo che il Cannile, l'antico ad Canales dei Romani messo sulla Via Appia con una caupona,
o tavernai era nel nostro territorio e molto distante dal confine di Laterza con Castellaneta e sempre aveva fatto parte del nostro agro indiscutibilmente, tanto che fin dal 1569 Don Pietro Antonio d'Azzia, allora Marchese di Laterza, fu convenuto al Tribunale della Regia Camera, perché esigeva il passo per detto Cannile, o Canneto.

Contrada Candile edicola alla Patrona di Laterza Maria SS. Mater Domini
con particolare dell immagine della Vergine

Tale diritto di passo era doppio: uno per la cazzatura dei carri e l'altro degli animali e quel giudizio confermò chiaramente, che detto Cannile, apparteneva a Laterza

[...] Dopo mille peripezie e atti di ingiunzione, nel 1720 fu fatta erigere una targa:

QUI NON SI PAGA PASSO,
PER DECRETO DELLA REGIA CAMERA DELLA SUMMARIA
IN ANNO 1720...

Stette questa lapide a vergogna dei Castellanetani eretta da quel tempo fino al 1734 e mantenne in essa viva sempre la memoria della perdita, ma sopratutto del rancore concepito per la lite, il quale passò poi in odio irreconciliabile, che malauguratamente sfociò, in atti di violenza e di rapineria.
Questo odio mal represso e la sete di vendetta furono la vera causa efficiente delle rappresaglie;
ma si aggiunse anche quest'altro fatto determinante, cioè: avendo l'Università di Laterza somministrata per comando avuto alle truppe alemanne nel passaggio per questi luoghi alcuni commestibili, e specialmente molto pane, ed essendo di questo rimasto molta parte in potere
di uno degli eletti di Castellaneta, che non ne volle fare restituzione alcuna, i Laertini, per ripagarsi del pane, dopo alcuni giorni, essendo capitato una giumenta ed un asino dell'eletto Francesco Carnevale, alias Livarano, se li ritennero; e di poi in corriracambio i Castelianetani si impadronirono di un cavallo del Sindaco di Laterza.
Venuti a patti, si restituirono vicendevolmente le bestie, e, per indennizzo del pane, i Laertini ricevettero carlini trenta.
Ciò non soddisfece a questi, per cui carcerarono alcuni animali dei Castellanetani, che avevano fatto danno all'erba di un loro parco.

Questa fu la scintilla, che fece divampare il fuoco, che lungamente represso ed accresciuto,
portò alla lotta violenta, che fu agevolata dalla effettuazione dalle lotte di regime, che infierivano,
e di conseguenza nella impunità da parte delle autorità, che, pensavano i Castellanetani, avevano ben altre cose più rimarchevoli ed urgenti alle quali porre riparo, che non alle beghe fra paese e paese.
Il Marchese di Laterza, che aveva una grande estensione di terreni seminatoriali alla contrada Cannile, credè suo incontrastato diritto di ingrandire l'antica caupona, ivi esistente, ed edificarvi un fabbricato di maggiore dimensione, che rispondesse meglio all'ufficio di taverna ed osteria per i viandanti transitanti sulla Via Appia ed a casa colonica per la sua vasta azienda agricola; per la qual cosa nel 1731 il Marchese, Sig. Francesco Perez-Navarrete, fece trasportare ivi il materiale edilizio
occorrente alla fabbricazione.
Appena Castellaneta ebbe sentore di ciò, forte del suo presunto diritto, che il Cannile si trovasse nel suo tenimento, ricorse al Sacro Regio Consiglio ottenendo sentenza favorevole a quanto essa denunziava, onde ottenne sentenza che il Marchese non facesse innovazione alcuna sotto la penale di duemila ducati, con la carcerazione dei lavoranti al fabbrico...
Il Perez non si preoccupò di questa ordinanza, dando principio alla costruzione; però, dopo nuovi ricorsi di Castellaneta, stimò prudenza desìstere dall'impresa per il momento.
Decorsi altri due anni il Marchese reclutò molti operai, i quali, spalleggiati da molta gente armata,
si diedero a tutt'uomo ad edificare notte e dì e financo il giorno di Natale, una grande osteria con altri edifici adiacenti ed una Cappella dedicata a S Giuseppe.
Essendo anche venuti al pascolo in quella contrada con diversi animali i Castellanetani Vito Paolo Serini e Francesco Silvestri li catturarono e li malmenarono, perché esercitavano un diritto non proprio.
Allora ì Castellanetani, vistisi calpestati nel loro presunto possesso, visto messo in non cale il decreto sopradetto, credettero farsi giustizia da sé nel modo che narrerò.
Volgeva l'anno di grazia 1734 ed in Castellaneta reggevano la cosa pubblica il Sindaco Giuseppe Vito di Tria e gli Eletti Bartolomeo Colizzì, Colantonio Bottiglione, Francesco Antonio Carnevale e Giuseppe Nicolo de Nittis; l'Utile Possessore di Castellaneta era Carlo Mari e Governatore un tal Mastrochirico, soprannominato Piducchio.
Tutti questi Signori dirìgenti l'Università di Castellaneta mordevano il freno innanzi alla baldanza dei Laertini, per cui decisero di farla finita con tale stato di cosa, aizzando la già eccitata popolazione.
E primo atto vandalico, che spiegava chiaramente le vecchie e vere origini del rancore ed odio dei Castellanetani, fu quello di demolire l'epitaffio eretto alla contrada Pagliarone.
Nella notte del 17 giugno 1734 si unì la gente di Castellaneta in numero di 500, riferisce il difensore di Laterza, e di circa 300 il Perrone, e tutti armati di zappe, zapponi, pali di ferro, attrezzi per praticare mine e coli' occorrente per demolire il Cannile. Tutti furono inquadrati e comandati militarmente sotto il Comando del Maresciallo, nella persona di un Dottore nominato Giulio Tucci,
gii Ufficiali, cioè, Colonnelli e Capitani erano Angelo Tommiello, Michele Bruno e Carmine Scarano, ì quali, in segno di comando portavano il bastone; non c'è che dire-, milizia in piena e perfetta regola!
Si portarono al Cannile, dove, abbattute le porte e le finestre, entrarono nei due lamionì di sotto ed alla camera al primo piano, distruggendo tutto quanto in esso trovarono e cominciarono la demolizione dell'edificio, ma, essendo questo solido e grande, era necessario molto tempo per abbatterlo, per cui praticarono dei fori nei muri facendovi le mine onde farlo saltare in aria;
ma ignari di questa pratica, le mine non agirono.
Vista che la demolizione non era possibile in un sol giorno e che ben altra efficienza doveva avere
anche quel colpo di mano, il famigerato Dott. Tucci pensò di non tornare a mani vuote al patrio ricovero, e, distaccati sessanta uomini dalla totalità, si portarono alla masseria del Sac. Don Giuseppe Cristella di Laterza, situata in quei paraggi e formata di due lamioni ed una camera soprana ed una Chiesa, in cui si celebrava e dedicava a S. Filippo Neri ed un giardino con muro a secco.
Vi erano nel giardino 23 alveari e nei lamioni, oltre gli strumenti agricoli e di cucina, vi erano anche quattro bovi aratori, una giumenta con un poliedro di proprietà del prete Cristelia, vi erano pure 5 altri bovi, una vacca e tre giovenchi del Sac. Don Carlo Parisi, e sei altri bovi del Sac. Don Leonardo di Lena tutti da Laterza.
Asportarono quanta roba vi era, trafugarono tutti gli animali e diedero mano alla demolizione del fabbricato, anche con mine, che qui puranco non funzionarono; ma, visto che albeggiava e, temendo che i laertini, fatti consapevoli di quello, che si commeteva a loro danno, li aggredissero, fuggirono con tutto il valoroso distaccamento e la refurtiva, non senza avere bravamente minacciato il massaro del Sac. Cristelia, che, se avessero potuto afferrare il padrone, l'avrebbero fatto a pezzi.
I Castellanetani, non paghi di quanto avevano commesso ai danni dei Laertini, con rinnovata e cresciuta baldanza e ferocia, riunitisi ancora in maggior numero di prima, ed inquadrati come il 17 giugno con i vari comandanti sempre sotto l'alto comando del famigerato Giulio Tucci, si recarono il 4 del seguente luglio al Cannile per mandare a completa esecuzione quanto prima avevano cominciato a fare.
Ivi trovarono un tal Vitantonio Manicone, che quattro giorni prima vi era stato posto per comodo
e servitù ai viandanti che transitavano per la Via Appia, apprestando loro di quanto abbisognasero,
com'erasi fatto sempre per antica consuetudine; lo legarono come un reo e lo depredarono di quanto egli ivi teneva, che ammontò al valore di ducati 87,90.
Imbaldanziti che nessuna resistenza, o controffensiva avessero trovato, come temevano,
scassinarono la porta della Chiesa dedicata, come dianzi dicemmo, a S. Giuseppe e dalle mani del sacrilego Prete Don Giacinto Ziferro, che, quale emerito Cappellano del Reggimento, ivi si trovava, fu tolta dall'Altare la Pietra Sacra e la Chiesa fu abbattuta completamente non senza avere prima asportato quanto in essa potevasi trovare.
Esultanti di questa gesta, preso quanto nell'osteria e nella Chiesa fu rubato, ritornarono in Castellaneta con i carcerati Vitantonio Manicone ed anche Gennaro la Sala, Barricelio del Marchese, Francesco Savino, Nicola di Pietrocoia, Gian Giacono Geminale e Giovanni Oronzo Russo, tutti di Laterza, i quali erano nei pressi del Cannile a lavorare nelle terre del Marchese e furono chiusi tutti nel carcere di Castellaneta.
Non sazi i Castellanetani delle rovine e distruzioni apportate al Cannile, tre giorni dopo, cioè, 7 luglio, tornarono alla masseria del Sac. Don Giuseppe Cristella, che prima avevano già depredata il 17 del precedente giugno e, sotto gli ordini del Maresciallo Tucci, demolirono l'intera casa colonica e la Chiesa ivi dedicata a S. Filippo Neri, e, tolta di nuovo il degno Cappellano Ziferro la Pietra Sacra,
rubarono prima una pianeta di velluto verde, una borsa, un corporale, un camice, tre tovaglie ed altre cose minute per servizio dell'Altare e che erano risposti in una cassa e, quasi che il furto sacrilego non bastasse, rubarono 20 alveari con miele, 20 tomoli di avena, 19 polli ed un carro ferrato, che servì loro a trasportare tutta la refurtiva, trainato da bovi, fatti prestare dalia masseria del Dott. Gregorio dei Vecchio loro concittadino.
Tutto il giorno devastarono la campagna circostante, commisero altri furti, ed essendosi annottato,
si recarono alla masseria del Sac. Don Girardo Perrone di Laterza, poco discosta dalla masseria del Sac. Cristella e, non trovandovi in essa nulla da rubare, abbattettero il fabbricato ed indi trionfalmente
e sparando a salve e tripudiando tornarono a Castellaneta.
Le gesta di demolizione e le ruberie a mano armata non furono solo le due sopra descritte; se ne commisero altre e cioè: il 5 luglio dello stesso anno dodici Castellanetani armati come banditi,
si recarono alla terra di Giardino di Pietro Russi di Laterza e, lui presente, gli rubarono otto sacchi di lana bianca e insieme a questi riempirono di orzo anche altri sacchi, che con loro portarono nella quantità di tomoli 20 complessivi, oltre ad un tomolo e mezzo di avena e tutto quanto di mangereccio ivi trovarono.
Di questo è incolpato Tommaso Nicolo Zilio, che fra i dodici ladroni fu riconosciuto dal testimone Giuseppe Zilio. Tantissimi altri furti ci sono stati e che qui non riportiamo... ma
Ora la verità storica esige risposta alla domanda:
ed i Laertini che fecero innanzi a tanti soprusi, furti e demolizioni di fabbricati? A leggere ii nostro difensore, tutto tace, e nulla pare che abbiano fatto; anzi, da veri cristiani, sembra li rappresenti seguaci della massima di Cristo: a chi ti batte una guancia tu presenti l'altra!....
Veramente i Laertini incrociarono le mani innanzi a tanto oltraggio e danno? Non erano certamente stinchi di santi e specialmente in quei tempi caotici e violenti, in cui la forza era quasi sempre il diritto; e perciò, se il difensore di Laterza tace, non così fa giustamente il Perrone ...
Ad impedire il prosieguo di altri conflitti e reciproche rappresaglie, e tanto disordine, prepotenza e violenza si cercò dalla Regia Autorità porre riparo ...
Ed ora vediamo l'esito della sentenza di questo processo, che si protrasse sino ai 18 settembre 1741
Tutti i castellanetani furono condannati al carcere e al rifacimento dei danni. ma, come spesso suole avvenire e specialmente poi in quei tempi, essendo pesci grossi, ruppero le maglie della giustizia
e se la cavarono lisci.
Fra i capi espiatori di questi disordini il più colpito fu Bartolomeo Colizzi, soprannominato Barrettone, già Eletto di Castellaneta, il quale, sfuggito la prima volta dagli artigli degli sgherri
del Marchese di Laterza, fu catturato in appresso e fu malmenato in malo modo tanto, da essere mutilato di un dito e cacciato moribondo nelle carceri Marchesali di Laterza e poi in quelle dì Matera, dove dopo sette anni morì.
Da parte poi delle rappresaglie commesse dai Laertìni dopo le provocazioni e danni subiti, fu stabilita la legittima difesa e il Cannile divenne definitivamente di Laterza...

(da: La Storia di Laterza di L. Galli)